ordinaria follia, Pensieri

UN CORNETTO E UN BEBE’, GRAZIE!

Finalmente, dopo quasi sette mesi, mi sento pronta a parlarvi del mio parto.

Ho pensato a come descriverlo in poche parole e inizialmente l’unica parola che mi è venuta in mente è stata “doloroso”. Grazie al cazzabubbolo direte.

Ho quindi provato a pensare ai dettagli di quella giornata senza focalizzarmi su quella testa che mi sbucava dalla fagiana e credo di aver trovato i 3 aggettivi che meglio lo descrivono:

Inatteso (un po’ come la gravidanza in sè), perché avevo deciso che non avrei partorito a termine. E come ogni volta che decido una cosa, le cose vanno chiaramente in tutt’altro modo.

A tratti comico, come quasi tutto ciò che mi accade, perché il mio stile di vita è rigorosamente improntato al non potercela fare, mai.

Spiazzante per quello che ho provato subito dopo il parto.

Tutto ebbe inizio nella notte tra il 22 e il 23 ottobre, – 3 alla data presunta del parto. 

Alle ore 4.30 del mattino mi sono svegliata bagnata (nulla di erotico, sia mai, il mio desiderio era in letargo già da almeno 4 mesi). Una donna al nono mese di gravidanza a pochi giorni dal termine avrebbe pensato che si trattasse di rottura delle acque. Ma io no. Le mie opzioni erano o ennesimo episodio di idrorrea o classica pipì addosso. Il pensiero che potesse essere la soluzione più evidente non mi era neppure passato per la mente, tanto è vero che, preso atto della cosa, mi sono cambiata e mi sono girata sull’altro fianco.

Il caso ha voluto che il giorno dopo avessi la visita di controllo per gravidanza a termine. Arrivata in ospedale ho aspettato le mie consuete 2 ore emmezza che qualcuno mi si filasse per poi esser rinviata al 30 ottobre perchè “signorina, non ci siamo ancora”. Daje, ero pronta a far saluti e baci quando all’ultimo la ginecologa mi ha guardata meglio e ha constatato che perdevo acqua.

“Signorina, ma non ci dice nulla?! Si alzi un attimo”.

Mi sono alzata e splash, è stato subito Aquafan!

Ebbene sì, mi si era rotto il sacco in un punto non meglio definito e dovevo esser ricoverata seduta istante. Un grosso inconveniente dato che non avevo ancora fatto colazione. In quel momento la fame ha avuto la meglio sull’ansia di procreare e con la scusa di dover recuperare la valigia (che in realtà vegetava già in macchina da un mese) sono “corsa” fuori dall’ospedale ad annunciare a Marco che ero stata talmente capra da non riconoscere la rottura delle acque e a pregarlo di portarmi a prendere un cornetto alla nutella. Marco, sconcertato, non ha potuto fare altro che accontentarmi. Ancora ricordo l’emozione e la complicità con cui ci guardavamo mentre mangiavo quel cornetto…la colazione più surreale della mia vita!

Rientrata in ospedale con ancora il baffo di nutella, ad aspettarmi c’era un bel digestivo: un tazzone di olio di ricino! Non so se avete mai avuto il piacere di provarlo, è una miscela straordinariamente efficace come stappa gravide, ma non mi stupisce che i fascisti lo usassero come strumento di tortura. Tempo un’ora ero già in travaglio, o meglio in quello che io, ottimista, credevo esser il travaglio. A tipo 2 cm di dilatazione ero già pronta per l’epidurale. Poi è iniziato il vero travaglio.

Ricordo i capelli in faccia, la sensazione di non riuscire a tener addosso la camicia da notte, figuriamoci la mascherina, i power nap tra una contrazione e l’altra, Marco che mi faceva la doccia calda e io, ippopotamo ferito, che lo guardavo e ripetevo “mai più”. Ricordo figure che si avvicinavano, mi parlavano, mi offrivano cibo e bevande calde e la mia risposta per tutto, con l’infinta pacatezza che il momento richiedeva, era sempre: “DOVE CAZZO È LA MIA EPIDURALE?”. Ricordo, dopo un periodo di tempo in(de)finito, l’arrivo dell’anestetista che mi comunicava che, se volevo, poteva procedere, ma che probabilmente era troppo tardi per fare l’epidurale. Ero talmente stanca da non riuscire neppure ad insultarla. L’unica cosa che feci fu girarmi verso Marco in cerca di consiglio

“Che facciamo?”

“Non facciamola”.

Bravo Marco. Dopo 10 minuti, mentre scodinzolavo ferocemente sul lettino e smadonnavo internamente contro l’anestesista, ho sentito qualcuno dire “vedo una testa”. 

La fase espulsiva è stata quasi una passeggiata di salute rispetto al travaglio. Ero talmente euforica che ho iniziato a ridere e urlare ogni tipo di improperio mentre l’ostetrica mi apriva come un’ostrica e la sala si riempiva di infermiere incitanti. All’ennesimo coro di “Dai cazzo Leonardo, esci da quel porco cazzo di buco” finalmente, alle 22.06 del 23 ottobre, del “calore solido” mi è uscito da mezzo alle gambe. Era Leonardo. 

Da che il tempo sembrava non passare mai, ci è voluta una frazione di secondo perché me lo mettessero in braccio. Avevo immaginato quel momento come la scena di una commedia romantica: la partoriente prende in braccio il suo piccolo e sorride felice a favore di camera. E invece no. In quell’istante ho sentito l’euforia di prima abbandonarmi e lasciare il posto alla confusione più totale. Ero talmente confusa che non riuscivo neppure a vederlo, continuavo a chiedere i miei occhiali, li mettevo, li toglievo, lo fissavo ma non lo vedevo distintamente. Perché ero così in difficoltà? Dov’era la mia ondata di gioia? Dov’era l’amore? Forse era normale, forse era già capitato ad altre mille donne di sentirsi così, ma non sapevo cosa mi stesse succedendo, ero spiazzata.

E niente quindi l’amore non è arrivato e ora mi devo tenere sto sacco di patate per tutta la vita… Scherzo ovviamente! Ci ho messo un paio di giorni per metabolizzare l’arrivo di Leo, del resto un conto è immaginare di essere in 3, un conto è esserlo. Ma poi la botta di felicità è arrivata, dritta dritta in faccia, e ora, nonostante manchino tante cose nella nostra famiglia, tipo l’ordine e l’organizzazione, di sicuro l’amore non manca.

Lascia un commento